Non è esagerato dire che Harry Dean Stanton potrebbe essere uno dei più grandi attori caratteristi sempre. Una leggenda vivente, Harry comparso oltre duecento film e ha lavorato con i migliori registi dell’industria cinematografica. Come accade con personaggi del suo calibro, diventano talmente iconici e grandi, che spesso è difficile distinguere la realtà dalla finzione, l’uomo e il mito. Se il fastidioso giornalista di Somewhere fosse comparso magicamente in questo film, probabilmente avrebbe chiesto: Chi è Harry Dean Stanton? Questo tuttavia non è necessario, perché sembra essere precisamente questa la domanda alla quale Sophie Huber cerca una risposta in questo suo sensazionale debutto cinematografico con il documentario Harry Dean Stanton: Partly Fiction.
Invece di cercare di essere un film biografico, Sophie sceglie cercare di arrivare al cuore di Harry Dean Stanton: La sua essenza. Gli chiede direttamente di raccontarsi, ma sorprendentemente Harry non sembra pensare gran’che di se stesso come persona o come attore. Harry sembra convinto che non vi sia “niente” da raccontare. Ora, se la psicologia ci ha insegnato qualcosa, è che niente in realtà vuol dire tutto. Così lei gli chiede della sua infanzia. Lui preferisce non parlare dei suoi genitori, in particolare di sua madre. Sembra che ci sia una sorta di oscuro passato che non c’è permesso scoprire.
Sophie decide di chiedere ad alcuni dei suoi amici e collaboratori di parlare con e su Harry. Vediamo David Lynch, Wim Wenders, Sam Shepard, Kris Kristofferson e anche Debbie Harry. Tutti pensano molto altamente di lui e provano piacere nel ricordare i bei vecchi tempi. La regista sceglie giustamente di mostrare queste interviste in un frizzante bianco e nero per enfatizzare l’aspetto nostalgico. A proposito della fotografia del film Seamus McGarvey compone immagini fantastiche, anche quando lavora a colori. Harry sembra aprirsi lentamente alla regista e il pubblico. Racconta come ha abitato con Jack Nicholson, che gli ha presentato il suo idolo Marlon Brando e poi ci sono le feste di Hollywood e molti altri aneddoti inediti.
Per l’intera durata del film non ho potuto fare a meno di percepire una specie di malinconia. Si sente solo? Ha qualche rimpianto? Sta cercando qualcosa che pensa di non poter trovare mai? Huber perseverando riesce ad avere uno sguardo nel suo modo di pensare e ragionare, la sua filosofia di vita. Harry sembra essere dell’opinione che in fin dei conti nulla sia veramente importante. Tutto è effimero e tutto finirà. Questi toni esistenzialisti, ma tristemente realistici, sono piuttosto inaspettati. Immaginavo di sentire la storia di successo, che celebra la vita e la carriera di un uomo, invece il documentario è il ritratto di un lupo solitario, che ha scelto di fare cinema perché paga meglio del teatro.
Il Kentuckiano divenne anche un attore, perché, come racconta, è più facile rimorchiare e in fin dei conti gli uomini vogliono solo scopare. Anche se è stato un donnaiolo ed è contento di non essersi mai sposato, nelle sue parole sembra trasparire una sensazione di vuoto interiore. La sua tristezza, di cui soffre qualsiasi comune mortale, è commovente. Di solito quando pensiamo alle star del cinema tendiamo a limitarci ad invidiare la loro bella vita, ma dimentichiamo che in fondo sono esseri umani anche loro. Nella sua voce e la performance onesta di canzoni country dal vivo, scopriamo più su Stanton di quello che potrebbe mai raccontarci a parole. Mentre lui consiglia ai giovani attori di recitare “se stessi”, Wenders ricorda come Harry fosse insicuro, quando in Paris, Texas ha accettato il suo primo ruolo da protagonista. Questo ci mostra ancora una volta un uomo insicuro e fragile, nonostante tutto il successo che aveva già ottenuto fino a quel momento della sua vita.
Non so fino a che punto è possibile conoscere qualcuno (o anche solo se stessi), ma questo documentario certamente fa del suo meglio capire chi è Harry Dean Stanton.